Articolo di Elisabetta Malantrucco, maggio 2019
Sara Romano ha scelto un titolo per il suo album che suona profondamente evocativo e suggestivo, al di là del senso stesso della parola composta, che incrocia e fonde “Saudade” e “Allegoria”. È un titolo che rimanda a storie antiche – narrate sottovoce – e a nenie che sussurrano di streghe, oppure di pastori perduti di notte nel bosco, che incontrano fantasmi di antichi eroi a cavallo. Potrebbe essere benissimo il titolo di un romanzo di avventure fantastiche, o un vecchio codice di formule alchemiche. Fa pensare subito a Puck che sogna in mezzo all’estate, o magari in mezzo alla neve di una Danimarca shakesperiana. Il bello è che il titolo corrisponde perfettamente all’atmosfera, al suono, al canto, alle parole dell’intero disco. Intero, perché in questo canto quasi sembra non esserci soluzione di continuità e ognuno dei brani – pur mantenendo diversità di sound, arrangiamento e soluzioni tecniche (è un disco che suona essenzialmente acustico) – sembra proseguire un discorso interiore, del cuore.
Per arrivare ad un risultato simile ci sembrano molti gli elementi complici: la voce sopra ogni cosa. Sara Romano canta in maniera calda e sicura e il suo timbro di sirena matura – o forse la sua interpretazione di cantante sicura – ipnotizza il marinaio. Il gioco dell’italiano e del dialetto alternati contribuisce poi a creare questo effetto, in cui si resta spiazzati tra la comprensione intellettuale e l’empatia sentimentale. Al gioco contribuiscono in maniera fondamentale anche gli archi di Michele Gazich, che con Marco Corrao (chitarra elettrica, basso elettrico fuzzy ed effetti) ha prodotto questo lavoro. E si sente. Va dato atto alla cantautrice siciliana di aver bene in testa l’importanza che riveste, nella realizzazione di un progetto discografico così forte e maturo, una produzione artistica adeguata e in sintonia col senso profondo del tutto. Non sono tanti a comprenderlo. Invece ancora una volta ci sentiamo di ribadirlo e di fermarci su un punto così essenziale, non solo per la realizzazione di un disco, ma anche per la crescita di un artista.
E per tornare a “Saudagorìa” e a questa atmosfera elfica e tolkeniana che ci piace tanto, non si può non ricordare che davvero le suggestioni musicali dell’album sono moltissime. Spesso – nell’ascolto – sembra di riconoscere qualcosa che non si riesce ad afferrare. Ci si ritrova il folk americano e la tradizione più antica del Sud Italia, ma anche accordi (più mentali che altro) con il meglio della canzone d’autore italiana. C’è anche dell’altro che sfugge ma che fa di questo album un prodotto davvero originale. E di felice ascolto. Nell’intervista che ha rilasciato a Blogfoolk, la Romano non ha avuto timidezze nel riconoscere bellezza a questo suo lavoro e ad affermare che ascoltarlo fa bene. Molto semplicemente ha ragione. E ce l’ha anche perché in questo clima di suoni così impalpabili eppure coinvolgenti, riesce a toccare storie vere di amore, morte, ritorni, violenze, guerre, distanze, solitudini, inquietudini. E questo accade con la rara grazia di chi sa parlare e raccontare il mondo in cui vive – questa nostra Terra così difficile da abitare ultimamente – senza punte di retorica e quindi con totale sincerità. In alcuni momenti una sincerità disarmante ma mai impudìca. Naturalmente lo fa da donna e non solo quando affronta direttamente temi femminili, ancora irrisolti in questa nostra società che si ritiene superiore – e quindi non solo in brani come “La strega” o “Cause” – ma anche – e soprattutto – quando mette a nudo la sua anima, come nella Title Track, oppure in “Piccola” o ancora in quei veri gioielli che sono “Nella neve” e “Unni Unni”: una canzone, quest’ultima, che parla, sì, di un cavaliere errante… ma è un cavaliere che somiglia a molte di noi.
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